Focus: Lo smart working ai tempi del corona virus
Il lavoro di milioni di italiani sta subendo stravolgimenti totali in questi giorni di stasi dovuta all’emergenza Covid-19 che ha paralizzato un intero Paese.
Chi può sta lavorando con modalità smart. Altri stanno tentando di adattarsi ad una nuova dimensione spazio-temporale, all’uso di strumenti diversi e ad un intervento più massiccio della componente tecnologica e digitale nelle modalità di esecuzione delle attività. Altri ancora non sono attrezzati o non hanno il know-how sufficiente per adottare modelli organizzativi di lavoro alternativi a quelli tradizionali.
Si chiama smart working, “lavoro intelligente”, frontiera del moderno vivere verso la quale fino ad un mese fa gli italiani camminavano e che, in poco più di dieci giorni, hanno dovuto raggiungere di gran corsa. Se da un lato questo non è un male, dal momento che l’Italia era indietro nel percorso di ammodernamento del lavoro su questo fronte, dall’altro l’avvento obbligato e repentino di modalità di smart working anche per chi non ne faceva uso, presenta i conti al sistema lavoro italiano che ora procede con velocità inevitabilmente diverse.
In un tempo di grandi differenze sociali e in un contesto in cui l’impossibilità di lavorare, anche solo per un mese, mette in crisi di sopravvivenza intere categorie occorre chiedersi quanto di questo cambiamento obbligato dovrà restare patrimonio acquisito del domani che saremo chiamati a ricostruire e chi avrà i mezzi e le conoscenze per poterne fare parte. In poche parole: può lo smart working creare discriminazione in una società già duramente provata come quella italiana o il paese sarà in grado, in piena emergenza, di farne una risorsa presente e futura senza perdere pezzi?
Smart working: chi, come e perché?
Lo “Smart Working” o “Lavoro agile” nel nostro paese è regolamentato dalla Legge 81/2017, che riconosce questo modello di lavoro quale strumento che garantisce ai rapporti di lavoro subordinato flessibilità attraverso l’uso delle tecnologie digitali, autonomia da orari e luoghi, produttività, innovazione, competitività, coinvolgimento di persone e gruppi di lavoro e quindi maggiore qualità della vita. Il tutto è riassunto nel concetto di “work-life balance” ossia di un nuovo modo di lavorare che consente un miglior bilanciamento tra qualità della vita e produttività individuale e che è il risultato di un sapiente uso dell’innovazione digitale e di approcci strategici che presuppongono un cambiamento di cultura radicale e un adeguamento delle imprese in termini strutturali. Le imprese ne traggono benefici in diversi modi: in termini di minori costi per uffici, strutture e relativi consumi (-30%), in termini di maggiore rendimento del lavoratore (+15%), di riduzione dell’assenteismo (-20%), di empowerment dell’azienda e delle sue relazioni e collaborazioni. Anche l’ambiente ne beneficia: una sola giornata a settimana di remote working porta ad un risparmio di circa 40 ore all’anno di spostamenti con una conseguente riduzione di emissioni inquinanti pari a 135 kg di CO2 all’anno.
L’Italia dello smart working a due velocità
L’avvento dello smart working, in questi giorni di quarantena dell’Italia, è apparso necessario a molte imprese che prima non ne facevano uso, pur rientrando tra quelle che astrattamente potevano. Queste, oggi, vedono invece in tali modalità di lavoro l’unica possibilità di andare avanti, anche se non a pieno ritmo, per cercare di sopravvivere ad un’agonia che, purtroppo, non ha una scadenza nota. Il modello, per quanto universalmente positivo e inevitabile conseguenza della globalizzazione, sta mettendo in luce punti di forza e di debolezza del sistema lavoro Italia ma anche potenzialità inespresse che certamente influenzeranno il modo di lavorare in futuro, quando l’emergenza corona virus sarà passata.
Quali lavori si convertiranno definitivamente in smart working? Esiste la possibilità che scompaiano alcuni tipi di lavori o categorie di lavoratori non più necessarie con l’uso dello smart working? Ci sono lavoratori che resteranno fuori perché non in grado di riconvertirsi?
È ovvio che il fenomeno, in questa fase, interessa chi può ancora, in qualche misura, lavorare e tutti coloro che facevano e fanno lavori tecnicamente “riconvertibili” in smart working. Lavorano di conseguenza come prima venditori e piattaforme di e-commerce, giornalisti, editori, marketers, web masters, bloggers, grafici, fotografi, videomakers, figure manageriali, ingegneri e tecnici informatici, assicuratori, consulenti, call center, impiegati di uffici, addetti alla comunicazione, ai social o alle pubbliche relazioni di imprese strutturate in modo da poter garantire l’uso di app e piattaforme di condivisione del lavoro a distanza ed altri. A ciò si aggiungano i liberi professionisti nella misura in cui non vi siano sospensioni o rinvii previsti dai rispettivi ordini di appartenenza.
Ma che ne è di coloro le cui imprese non sono attrezzate al lavoro a distanza?
Secondo i dati (del 2018) dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano se è vero che il 58% delle grandi imprese ha già avviato meccanismi concreti di smart working ed è aumentata negli ultimi due anni la diffusione del lavoro agile nelle PMI italiane e nelle PA (dove raggiunge il 16%), c’è anche da evidenziare che la percentuale di imprese disinteressate al tema è cresciuta dal 38% al 51%.
Che l’emergenza attuale porti a fare di necessità virtù? È abbastanza probabile. Purché la crisi di risorse non impedisca ad alcune categorie di imprese di adeguarsi strutturalmente per il lavoro agile. Perché altrimenti oltre al danno, la beffa. Se non fosse il fermo da Corona Virus a determinarne la scomparsa, per alcuni potrebbe essere proprio l’impossibilità di adeguarsi così bruscamente al nuovo corso imposto, senza pietà, dagli eventi e dall’invisibile insidia che sta sconvolgendo il pianeta.